Contro la Gamification (Against Gamification)
Il termine non mi è mai piaciuto, lo ammetto. Ho sempre preferito usare “motivational design” se proprio dovevo, pur non essendo esattamente un sinonimo. Ho sempre temuto che la semplicità del concetto e la sua immediata comprensibilità rappresentasse un pericolo. E così è stato.
La gamification è diventata subito, è stata per anni e rimane ancora oggi, la bandiera di troppi per giustificare lifting estetici e raffazzonati di interfacce, applicazioni e processi mal progettati e spesso realizzati peggio.
“Chi non sa cosa è il gioco? Chi non ha giocato almeno una volta con il Lego o un videogame? Ecco, la gamification è un po’ questo: rendere piacevole e divertente fare cose che altrimenti non faremmo volentieri”. Questo avevano capito i troppi citati prima, questo hanno fatto. Per un numero incredibilmente ampio di committenti peraltro, facendo danni notevoli.
Non tutti i committenti erano seri e in buona fede, questo va detto, come va detto che un ridotto numero di addetti ai lavori capaci c’erano e ci sono oggi. Sono quelli che se pronunci “motivational design” non fanno la faccia semi-divertita di chi non ha capito nulla e cerca di darsi un tono.
Ovviamente questa mia è una provocazione a fin di bene. Non ho nulla contro la gamification in senso generale se non per l’infelice scelta del termine e per il contesto di applicazione. Il mio “essere contro” è per come è stata implementata, ovviamente.
E allora quale è il punto? Il punto è che ormai sono passati degli anni e potremmo dare per acquisito il fatto che pagare le tasse, prenotare le analisi del sangue, iscrivere i figli a scuola, scegliere la polizza assicurativa meno costosa, non è divertente e non lo sarà mai. Non è mettendo disegnini, lustrini, giochini a punti, premi, punti sconto e gadget che il cliente farà più volentieri quanto è di fatto costretto a fare per necessità.
E allora, come lo convinciamo? Io credo che sia possibile aiutare il cliente (ancor più se nel temporaneo ruolo di “utente obbligato” di un servizio) solo rendendo la procedura più comprensibile, lineare e rapida possibile. Cosa che forse può sembrare più complicata e costosa per il committente, ma nella realtà – quasi sempre – porta a risultati migliori della gamification forzata.
E della gamification cosa ne facciamo? Credo possiamo farne una regola di buon design, anziché un uso forzato e spesso fuori luogo. Per spiegare meglio il concetto: potremmo gamificare il design, nel senso di progettare servizi e funzioni con la stessa attenzione e cura per scenari, situazioni, personaggi, regole, azioni, reazioni e risultati che si possono riscontrare in qualsiasi gioco, prima ancora che videogioco.
Come in ogni gioco che funziona, il numero di “passaggi” per raggiungere l’obiettivo (quello finale come quello intermedio) deve essere limitato e motivato. Non va bene se per avanzare nel gioco devo tirare 3 volte i dadi, pescare due carte e risolvere un enigma tutte le volte: è troppo, persino se il gioco è divertente. Pensate se dovete fare lo stesso per comporre la vostra polizza sanitaria o prenotare il tagliando dell’auto.
Invece, la congruenza d’insieme di ogni passaggio e momento di un videogame ben fatto ha del miracoloso. E guardate che lo dico non essendo un appassionato di gaming, pur studiandoli da tempo ed avendo progettato dei giochi.
Dunque, lasciamo la gamification al suo naturale ambiente di applicazione, usiamone i modelli e le tecniche dove è opportuno (i game designer concorderanno…) e riprendiamo a fare l’onesto lavoro di service designer e designer progettando servizi che funzionano per gli utenti perché pensati per loro e per i loro bisogni. Saranno forse meno “giocosi” ma certamente più utili ed efficienti.
Alessandro Nasini
CEO/Head of Design